Il procedimento di cottura

Sezione di fornace.

Sulla circonferenza interna della fornace, iniziando dalla base, si ergeva un muretto di pietre calcaree regolari, sul quale poggiava la volta (se fa l’vò); si proseguiva così a riempire il forno, chiudendo la cupola con elementi grossi. Nel fornello di combustione si ammassavano prima le fascine da incendiare, poi ciocchi e tronchetti (se carga la furnàs) che turavano la bocca della fornace e impedivano l’uscita del calore.

Era necessaria molta attenzione e poca legna nella fase di riscaldamento per non compromettere la bontà del prodotto: la pietra non doveva annerire e bisognava evitare la formazione di un nucleo crudo all’interno dei blocchi di calcare. A poco a poco le fiamme penetravano attraverso la massa calcarea e giungevano fino in cima alla fornace.

Il fuoco doveva essere continuamente alimentato per una combustione lenta e progressiva, a volte fino a 1300° C per circa otto o dieci giorni.

Per garantire un livello di temperatura così alto e costante erano necessari fino a 200 quintali di legna, per circa 120 quintali di calce viva ottenuta.

Fiammelle verdi e gialle a fine cottura diventavano azzurre segnalando l’avvenuta trasformazione del carbonato di calcio in ossido di calcio (Ca0), ossia calce viva.

Il raffreddamento della pietra doveva avvenire lentamente; si proteggeva la sommità con tavole, per difendere il prodotto da acquazzoni improvvisi. La roccia estratta dal forno assumeva una tonalità più chiara e, soppesandola, si constatava una diminuzione del trenta per cento del peso originario.

Il forno era così svuotato, iniziando a rimuovere le rocce dall’alto per poi disfare la volta dalla bocca di carico.

Il calcare

Blocchi di calcare.

Il calcare è una delle più comuni e diffuse rocce sedimentarie costituita almeno per il 50% da Carbonato di Calcio (CaCO3).
Il colore è biancastro, ma anche di altre tonalità in presenza di impurità di ossidi minerali.
Oggi le marne o calcari contenenti impurità idonee e nella giusta quantità conducono alla produzione del cemento naturale.

I valligiani usavano i calcari frantumati anche in agricoltura per la correzione dei terreni eccessivamente acidi. La calce viva, mescolata al solfato di rame, era utilizzata contro la peronospora della vite.

La calce spenta

La calce viva, se non impiegata subito, era conservata in luoghi asciutti, oppure era sottoposta a una reazione di spegnimento, in fosse d’acqua dette calcinaie, associata a un violento rilascio di calore e alla disgregazione della pietra.

Utilizzo della calce.

Questa fase avveniva in due passaggi, in una prima vasca di spegnimento (un cassero in legno dalle sponde alte detto benèl de la calcina), poi in vasche di stagionatura scavate nella terra, dentro le quali si ha la formazione del grassello di calce. L’impasto così ottenuto e rimescolato più volte poteva essere conservato a lungo ricoprendolo con uno strato d’acqua per evitarne il prosciugamento e l’alterazione.

La maggior parte della calce era utilizzata per la preparazione di malte e di leganti per l’edilizia.

La presa inizia con l’asportazione dell’acqua e la successiva essiccazione a contatto con l’anidride carbonica presente in atmosfera.

Questo lento processo ritrasforma il composto originario in calcare.

Non solo il muratore aveva bisogno di calcina, ma ogni casa contadina era provvista di una buca profonda, predisposta nell’involt (scantinato), che si riempiva con calce spenta e all’occorrenza veniva impiegata per dà ‘l bianc alle stalle e alle stanze, ossia si stendeva uno strato di intonaco di calce come disinfettante.